Ricordando Placido Rizzotto (10 marzo 1948)

“Il vento del Nord” è il titolo di una nostra canzone dedicata a Placido Rizzotto, perché così fu chiamato quando rientrò in Sicilia dopo la Resistenza (era stato partigiano in Carnia con le Brigate Matteotti) ma in Sicilia ben presto divenne anche il “vento del Sud”, segretario dela Camera del Lavoro di Corleone, a organizzare le lotte dei braccianti. Il 10 marzo 1948 fu ucciso; il capitano dei Carabinieri si chiamava Carlo Alberto dalla Chiesa, e individuò subito il gruppo dei mafiosi che l’avevano ucciso, ma mancava il corpo di Rizzotto, che fu ritrovato soltanto molti anni dopo. A prendere il posto di Rizzotto alla Camera del Lavoro fu mandato un giovane palermitano di 23 anni che si chiamava Pio La Torre, che lo sostituisce degnamente ed esattamente due anni dopo, il 10 marzo del 1950, guida i braccianti a occupare i latifondi dei mafiosi a Bisacquino, vicino Corleone. Pio la Torre quel giorno fu arrestato e restò chiuso all’Ucciardone per 18 mesi.

Quando presentiamo questa canzone nei nostri reading dedicati alle lotte contadine, dobbiamo spiegare tutto questo, perché “Vento del Nord” è un titolo “strano” che si porta dentro purtroppo negli ultimi anni “assonanze politiche” che non c’entrano nulla con la storia di Rizzotto.

In questi ultimi giorni forse è ancora peggio, perché pare che ora dal Nord scendano insieme virus e panico, in combinazioni variabili tra loro e niente affatto chiare (dove la prudenza “solidale” di mantenere una distanza momentanea per non esporre altri prima ancora di se stessi al contagio, rischia d’imprimerci dentro automaticamente una paura permanente del tutti contro tutti), ma nulla è chiaro purtroppo in questo momento (9 marzo 2020), e si sommano sopra anche altre cattive notizie, sia di tipo economico (crolli in borsa paurosi questa mattina, aggravati anche dagli effetti proprio oggi di mancati accordi internazionali sui prezzi del petrolio, come nella crisi energetica del 1973), sia di tipo “sociale”, come le terribili notizie che riguardano i profughi in fuga ai confini greco turchi, respinti e attaccati da tutti. E altre cose ancora, come le rivolte in corso in molte carceri italiane.

“Non si può ingabbiare il vento” dice in apertura la canzone e il vento naturalmente è quello solidale di Placido Rizzotto, e poi la canzone prosegue, specificando “Quando le parole sono un fiume” e soprattutto “Quando la gente è un fiume, dilaga sulle trazzere e i latifondi”. La canzone rende omaggio a tutto questo e aggiungerei anche a qualcosa di più con questa metafora del vento che non si può ingabbiare, e che rappresenta la vicinanza tra le persone al di là dei confini e delle distanze. Questa mescolanza e questo scambio tra le persone sono la nostra forza più grande, il nostro patrimonio.

Per raccontare questo ‘qualcosa in più’ durante i nostri reading inizio di solito con il ricordare che a Staffolo, un paese della nostra regione, le Marche, c’è una lapide dedicata ad alcuni partigiani fucilati durante una rappresaglia nel giugno del 1944, e nella lapide si legge oltre al loro nome anche il loro paese di provenienza, e uno di questi giovani veniva proprio da Bisacquino, e così racconto chi era questo ragazzo e aggiungo che se non fosse stato fucilato magari qualche anno dopo avrebbe potuto incontrare Rizzotto, magari non per occupare le terre insieme ma questo per il semplice motivo che quel ragazzo era un carabiniere, e anzi che proprio per questo magari avrebbe potuto conoscere e lavorare con il giovane capitano dalla Chiesa, proprio per indagare sulla morte di Rizzotto. E così via, tante storie che s’intrecciano e legano in un solo filo, il filo dei dettagli che unisce la Storia: la Carnia, la Resistenza, le lotte dei contadini, la Sicilia, Pio La Torre e le lotte contro la mafia e la sua amicizia fin da quei lontani giorni a Corleone con dalla Chiesa e poi le sue lotte contro i missili nucleari in Sicilia all’inizio degli anni Ottanta, pochi giorni prima della sua uccisione. Tutto questo partendo da una lapide esposta a Staffolo, che ci ricorda la mescolanza di quei giorni – venivano tutti da altri paesi quei 5 giovani fucilati – e bastava già spostarsi di qualche chilometro ancora verso il Monte San Vicino per trovare uno dei battaglioni partigiani più internazionali di tutto l’appennino (c’erano anche partigiani somali ed etiopi, ne parla in un recente libro lo storico Matteo Petracci). E questo è solo un esempio, perché era così ovunque e da questo nasceva la loro forza.

Domani è il 10 marzo, anniversario della morte di Placido Rizzotto, ricordiamo lui e tutti questi significati che ritroviamo seguendo la sua storia, fino ad arrivare a noi in queste giornate difficili, in mezzo alle quali però non dobbiamo perderci né disperderci, dando il giusto siginificato alle cose: “non si può ingabbiare il vento quando la gente è un fiume”.

 

 

 

Concetta Moschetto e Purtelja së Jinestrës

Leggo oggi, con una dozzina di giorni di ritardo, che il 18 gennaio a Piana degli Albanesi (PA) è scomparsa Concetta Moschetto, figlia di Margherita Clesceri uccisa a il 1° maggio 1947 a Portella della Ginestra.
Concetta quel giorno non aveva ancora 15 anni e la madre ne aveva 37. Avevo letto proprio da un’intervista a Concetta che quel giorno lei e gli altri familiari riportarono in paese il corpo della madre adagiato sull’ala di un aereo, un relitto di guerra che era rimasto lì abbandonato. Anche la sorella maggiore fu ferita gravemente quel giorno ma per fortuna riuscì a salvarsi mentre il suo fratello maggiore si trovava a cavallo, fu colpito ma si salvò miracolosamente, morì invece il suo cavallo.
I due figli più piccoli, Giorgio e Vita, andarono in adozione (con quei programmi di solidarietà di allora, raccontati nel libro “I treni della felicità” di Giovanni Rinaldi) a Villaggio Cagnola, vicino Varese. Giorgio divenne amico fraterno di Carmelo Scumaci, un ragazzo calabrese anche lui orfano d madre, Giuditta Levato di Calabricata (CZ), uccisa nel 1946 dalla guardia di un latifondista mentre andavano a reclamare l’utilizzo delle terre incolte che un decreto del ministro Gullo aveva assegnato a una cooperativa di braccianti.
L’altro fratello di Carmelo era stato adottato dal comandante Ilio Barontini, a Livorno. A Villaggio Cagnola lavorava in quel periodo anche il poeta Gianni Rodari, a sperimentare i suoi metodi pedagogici e la sua “grammatica della fantasia” per inventare e intrecciare con quei ragazzi nuove storie. Non ricordo bene ora se fu lì a Villaggio Cagnola o poco dopo, che Carmelo Scumaci e Vita Moschetto s’innamorarono e sposarono, inventando e intrecciando davvero una nuova storia.
Riporto un racconto di Concetta, registrato nel 2015 proprio a Portella nei pressi del Sasso Barbato, nel quale rievoca sia la vita di prima che quei momenti drammatici e poi i funerali: “perfino la terra piangeva” è la sua espressione. E racconta anche il dopo. Tra le tante vicende che hanno passato, racconta anche un particolare grottesco e assurdo, un fatto di qualche anno dopo, quando il padre si trovò arrestato in modo del tutto arbitario e per di più fu rinchiuso in cella addirittura con Gaspare Pisciotta, uno degli assassini di sua moglie.
Nel mio libro L’erba dagli zoccoli sulle lotte contadine il titolo del racconto che dedico a Portella l’ho scritto in arbëreshë: Purtelja së Jinestrës; poi nel corso dei reading di presentazione abbiamo dedicato anche una canzone a questa storia, Vi Cunto e Canto Portella della Ginestra, e un’altra canzone ancora l’abbiamo dedicata anche a quei ragazzi dei treni della felicità, e in questa cito anche la storia di Vita e Carmelo: Corre il treno .

Missili nucleari e lotte contadine

«Domenica 2 maggio. Emana forza il silenzio che sfila per le vie di Palermo. La gente ha deciso di esporsi in piazza con la sola presenza disarmata dei corpi. Le parole le serba per sé, che restino integre. Persino i pensieri tacciono, evitano le metafore, si limitano a ribadire: ci siamo. Tra le persone che sfilano due giovani forestieri che si trovavano a Comiso. Si girano attorno…», inizia così il racconto “Santa Maria del Bosco” dedicato alle occupazioni delle terre a Bisacquino dirette da Pio La Torre, che aveva sostituito Placido Rizzotto alla Camera del lavoro di Corleone. Quel 10 marzo del 1950 Pio La Torre fu arrestato e rinchiuso per un anno e mezzo all’Ucciardone con false accuse.

La domenica 2 maggio invece è quella del 1982, data del suo funerale dopo essere stato assassinato dalla mafia. Nel mio libro inizio il racconto in questo modo, riprendendo in un solo percorso le lotte dei contadini per la terra e quelle contro i missili nucleari a Comiso, e immagino una coppia di giovani a Comiso per quella battaglia, in quei giorni era in corso uno sciopero della fame a cui anche La Torre stava partecipando: «Il 29 aprile a Comiso era stato indetto un digiuno di protesta. Non è più come ai tempi di Danilo Dolci, quando per uno sciopero della fame bastava spostarsi in mezzo alla strada, tanto non si mangiava nemmeno in casa ma fuori almeno si era in tanti e non da soli. Danilo portava anche il grammofono e i dischi di musica classica. È importante anche nutrire lo spirito, ed è facile se gli si presta attenzione, altrimenti rischia di perdersi ancora prima del corpo. Si digiuna, anche oggi, perché la fame può essere ancora l’arma giusta per tenere leggero lo spirito e pulire le parole. Avrebbe dovuto esserci anche Pio La Torre il Primo Maggio…».

Personalmente non c’ero a Comiso, ricordo soltanto che seguivo con molta attenzione, non solo tramite ciò che leggevo ma anche attraverso il racconto di chi stava partecipando in modo diretto a quel nuovo movimento dei primi anni Ottanta, e così nel mio racconto sulle lotte contadine in Sicilia immagini questa coppia di ragazzi al funerale di Pio La Torre. Immagino lui un trentenne reduce dei movimenti degli anni Settanta, una via di mezzo tra l’ultimo mohicano e don chisciotte, e lei una ragazza ventenne più fresca perchè si sta formando proprio ora: fu coniato il termine ‘generazione Comiso’ per questo nuovo movimento degli anni Ottanta:  « … e di nuovo giù in Sicilia perché i lavori all’aeroporto Magliocco non si fermano. Il 30 aprile però fermano Pio La Torre, e non risparmiano nemmeno Rosario Di Salvo, il suo autista. La mafia ci tiene, sì che ci tiene ai missili, agli appalti, all’aeroporto, a quell’isola che ogni tanto scoppia, ma strategica, in mezzo al Mediterraneo. Strategica per la pace, ecco perché i nuovi movimenti l’hanno scelta…».

Nel racconto i due giovani discutono molto tra loro con punti di vista diversi ma insieme si mettono a ricostruire la vita di quel “funzionario” che all’età di 22 anni aveva guidato i contadini a occupare le terre, e ancora oggi è qui, questa volta a tenere insieme un grande movimento contro i missili: « “Pio La Torre fermato durante le cariche e in galera per violenza?” “Ricordi a ottobre gli idranti? Volevi proteggerlo quel funzionario riformista secondo te abituato solo alle scrivanie!” “Ma lo scarcerarono subito?” “Un anno e mezzo all’Ucciardone…».

In questi giorni Trump e Putin hanno sospeso il trattato nucleare, dichiarandosi entrambi pronti a schierare nuovi missili. Che cosa vogliono farci? Politiche di oggi seguite con indifferenza grazie anche alla cancellazione delle memorie di ieri.

(la foto è tratta dal blog Agorà)

 

Vi cunto e canto Portella della Ginestra

Portella della Ginestra, primo maggio 1947. Il racconto nel libro e la canzone, “Vi cunto e canto”.
Domani è il Primo Maggio, settanta anni esatti dall’eccidio di Portella. Ho dedicato a questa vicenda uno dei racconti del libro, «Purtelja së Jinestrës», in lingua arbëreshe, la lingua di tanti in quella zona. Tutti i racconti del libro riguardano storie accadute tra il 1949 e il 1950, tranne questa di Portella, che risale a due anni prima, ma non potevo escluderla e non solo per la sua importanza ma anche perché da ragazzo ho avuto l’occasione di  incontrare due persone presenti quel giorno a Portella, due superstiti per raccontare quella storia negli anni.

Il racconto che ho scritto e inserito nel libro nasce dunque da questo legame di sentimento. Ho raccolto quel racconto orale diretto e nel riproporlo ho cercato di ricreare la stessa situazione ed emozione della sera in cui li ascoltai, a cena con loro, in quella trattoria in un vicolo del centro storico di Trapani, il 30 aprile dei 41 anni fa.

Grazie a loro, anch’io sono entrato un po’ dentro questa storia, e poi sono entrato direttamente nel mio libro, insieme ai personaggi reali narrati; il racconto che nell’ordine del libro precede questo di Portella, e che ho dedicato alla Sicilia di Placido Rizzotto e Pio la Torre, termina con un dialogo tra due ragazzi, nel quale lui anticipa a lei la storia di Portella:

“E la storia di cui parlavi?”
“La sera del 30 aprile, non so perché ma non c’era nessuno a cena. Perfino il cameriere della Fgci era via. Così m’invitarono al loro tavolo, come in famiglia. In televisione andava in onda qualcosa sul Primo Maggio, che era il giorno dopo. Un servizio su Portella della Ginestra, con interviste e scene dal film di Rosi. Loro due s’erano fatti silenziosi e a un certo punto la moglie mi fa: Noi c’eravamo quel giorno!”
“Davvero? E me lo dici solo ora? ‘Io so qualcosa..!’ Che disgraziato! Mi fai volare con la fantasia e invece tu… ma lo fai apposta, te la farò pagare.”
“L’ho scritto il loro racconto.”
“Hai preso appunti mentre parlavano?”
“No. L’ho fatto dopo, andando a memoria.”
“E perché?”
“Fu come se… non so, non mi resi conto subito di ciò che mi raccontavano. E poi eravamo a cena, tra un bicchiere e l’altro. L’ho riscritta qualche anno più tardi, dopo aver letto molti articoli e cronache… ho rivisto anche il film, che a tratti non coincideva col racconto. Così, quando l’ho scritto, al loro racconto ho mescolato anche altro, per dargli ordine, e poi perché non ricordavo tutto in modo esatto. Non ho più le loro parole dirette ma non ho dimenticato il loro modo di raccontare. Si davano il cambio, come se fosse un solo racconto alimentato da due voci intrecciate insieme. Come immagino sia stata la loro vita. Ricordo bene i loro visi, i gesti, i passi avanti e indietro dalla cucina. Il tono della voce. L’emozione che ti si rovescia dentro, come hai detto tu, che mi hanno trasmesso, su quanto accadde al ”Sasso Barbato”, la grossa pietra dove salivano i comizianti a fare la predica, come la chiamavano, che prendeva il nome dal sindacalista arbëreshë Nicola Barbato, Kola Barbati, uno dei fondatori dei fasci siciliani.”
“Perché non hai scritto subito questa storia?”
“E chi lo sa? Mi dissero tutti i nomi delle vittime, mi incuriosii di Margherita Clesceri, madre di 6 figli. Poi cercai delle informazioni…”

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Vi canto e canto Portella della Ginestra
testo di Tullio Bugari, musica e voce Silvano Staffolani

Vi cunto e canto la storia di quel giorno
Che il cielo sparò sulla terra
Per fare la predica sul Sasso
Ci salì Giacomo Schirò un calzolaio
Faccio fatica a rievocare quegli istanti
L’aria fresca sul viso gli echi dei bambini
Il brusio delle voci che s’abbassa
L’attimo di silenzio che precede l’inizio
L’attimo di silenzio che precede l’inizio
“Compagne e compagni,
lavoratori del braccio e della mente”
Disse Schirò iniziando la predica
Poi i boati qualcuno che cade
Altri che battono le mani
Li scambiano per i mortaretti della festa
Li scambiano per i mortaretti della festa
Vi cunto e canto la storia di quel giorno
Che la terra si avvolse nel dolore
Dopo i boati le raffiche di mitraglia
Da più parti squarciano l’aria
Un’eternità
Muli cavalli e persone
Che ondeggiano fuggono cadono
Vedo una bambina è a terra
Vedo una bambina è a terra
Vedo una madre e una figlia cadere insieme
La madre sulla bocca ha il sangue
E l’altra figlia grida mamma
Cos’è questo sangue?
E la madre la guarda e piange
Poi il silenzio e tutto è immobile
E la madre la guarda e piange
Poi il silenzio e tutto è immobile
Vi cunto e canto la storia di quel giorno
Che il dolore straziò l’anima dei corpi
Solo il rumore dell’acqua del ruscello
E un dolore
Tutto attorno gente
E animali caduti
Una madre regge sulle braccia
Il piccolo figlio morto
Sulle alture della Cometa
Le ginestre sono mute
Sulle alture della Cometa 
Le ginestre sono mute
I più giovani erano partiti allegri
Con le bandiere rosse
Tornano impauriti e feriti
Non piangono non ne hanno la forza
C’è un cavallo a terra
La bocca di sangue e il figlio che grida
E il padre, altro che cavallo,
Hanno ucciso la mamma
E il padre, altro che cavallo,
Hanno ucciso la mamma
Vi cunto e canto la storia di quel giorno
Che i corpi e le anime si rialzarono in piedi
Dal paese sale un camion
Per caricare morti e feriti
ma loro la madre
vogliono riportarla giù da soli
la adagiano sull’ala di un aereo
caduto durante la guerra
anche lei come un’ala
caduta dal cielo
la adagiano sull’ala di un aereo 
caduto durante la guerra
anche lei come un’ala 
caduta dal cielo

 

Processo articolo 4

art4Oggi è il 2 giugno, festa della Repubblica e anniversario – giusto settanta anni fa – della vittoria del referendum per la repubblica e l’elezione dell’assemblea costituente. Un anniversario il cui significato più importante troppo spesso è rimasto nascosto dietro la parata militare. Mi piace ricordare in questa giornata la figura di Danilo Dolci, che si lega invece al “processo all’articolo 4“, il processo che subì dopo l’arresto nel 1956, durante uno “sciopero alla rovescia”, mentre guidava un gruppo di braccianti a lavorare una  strada abbandonata all’incuria nei pressi di Partinico, chiamata la Trazzera vecchia.

Il contesto in cui maturò la vicenda, il lavoro di Dolci a Trappeto, vicino  Partinico, la preparazione dello sciopero e poi gli arresti e il processo sono narrati in un bel libro, ripubblicato pochi anni fa da Sellerio, in cui tutta la storia viene mostrata attraverso la ricostruzione del dibattimento processuale, anche attraverso le opposte testimonianze che così, per contrasto, evidenziano ancora meglio la portata etica e politica della lotta sociale in atto. Tra gli interrogati compare anche un giovane Goffredo Fofi, che in quel periodo era sceso in Sicilia per lavorare a fianco di Danilo Dolci. Lo sciopero alla Trazzera era stato preparato da Danilo Dolci con diverse iniziative, tra cui lo sciopero della fame a Trappeto, in piazza. Ma anche lo sciopero della fame era stato vietato.  “Ma non c’è da mangiare nemmeno in casa, perché non possiamo farlo insieme in piazza?” rispondeva Danilo Dolci, che poi portava anche un grammofono, per ascoltare musica e nutrire, se non il corpo, lo spirito.

Nel collegio di difesa c’era anche Piero Calamandrei, che pronunciò un’arringa memorabile, sottolineando che alla sbarra c’erano non soltanto i manifestanti ma la Costituzione stessa. I contadini in quegli anni spesso manifestavano attaccando sulle loro bandiere gli articoli della Costituzione che più da vicino riguardavano la loro condizione. Che cosa recita l’articolo 4? “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.”  Di fatto difendeva lo sciopero alla rovescia. Si tratta, altrettanto di fatto, di lavorare gratis, perché allora metteva così paura questa forma di lotta, praticata spesso in quegli anni e altrettanto spesso repressa? È il loro rendersi attivi e protagonisti che mette paura. “È fatto giorno, siamo entrati in gioco anche noi” scriveva appena pochi anni prima il poeta contadino Rocco Scotellaro. “Non piace ai padroni quando le mani e le braccia diventano come una testa che pensa” faccio dire al personaggio di Cosima nel racconto che nel libro L’erba dagli zoccoli dedico a un altro sciopero alla rovescia, sempre per costruire una strada, a Lentella, in Abruzzo.

Cercando in rete, ho trovato sul processo all’articolo 4 un adattamento teatrale realizzato un paio di anni dall’Ordine degli Avvocati di Agrigento, che in quell’occasione ha voluto festeggiare il 140° anniversario della fondazione dell’ordine con questo omaggio a Danilo Dolci, e quindi alle lotte contadine e alla Costituzione, affidando inoltre la messa in scena non a compagnie esterne ma a loro stessi, salendo sul palco, come in una rievocazione popolare. Il filmato è disponibile su Youtube. Qui.

Si è spento Mario Nicosia, reduce della strage di Portella della Ginestra

Mario-Nicosia-2Si è spento Mario Nicosia, reduce della strage di Portella della Ginestra. Un giorno triste, per quanti lo hanno conosciuto e ne hanno tratto un’ispirazione per il lavoro quotidiano di promozione della legalità nel territorio.
Si è spento lunedì, all’età di 91 anni, Mario Nicosia, reduce della strage di Portella Delle Ginestra, un pezzo di storia di tanti volontari che oggi hanno qualcosa in meno. A ricordarlo sono Libera Sicilia e il Settore Memoria dell’associazione fondata da don Luigi Ciotti.
«Avrei mille cose da dire su Mario Nicosia – afferma commosso Gregorio Porcaro, coordinatore regionale di Libera Sicilia -, ma non vogliamo essere originali a tutti i costi. Il dolore è dolore. Il vuoto è vuoto. Eppure, resta sempre qualcosa che avresti voluto dirgli, la voglia di qualche parola che avresti voluto sentire da lui, mille e mille volte. Resta l’azzurro dei suoi occhi, così profondo che ti mette pace. Resta il suo bastone che lo reggeva e che continuerà a reggere la speranza e la voglia di costruire futuro. Resta il suo abbraccio, restano le lacrime di commozione di migliaia di ragazzi che hanno irrigato Portella, mentre lo ascoltavano insieme al sangue dei martiri».
Adesso sta a quanti lo hanno conosciuto e amato per il grande spessore umano, raccogliere il suo testimone, continuando a raccontare di Portella e a chiedere verità e giustizia. È del resto quello che avrebbe voluto Mario, stando sempre al fianco di tutti quei giovani che credono nel cambiamento.

(dal blog Cronache di Palermo)

Purtelja së Jinestrës (1° maggio)

DSCN5689-300x224Il 1° maggio è legato in modo forte nella memoria collettiva del nostro paese alla strage di Portella della Ginestra. Qualche sera fa, presentando il mio libro L’erba dagli zoccoli alla Biblioteca Planettiana di Jesi, uno dei tre brani che ho letto era tratto proprio dal racconto che nel libro dedico alle vittime di Portella, ricordando e ricostruendo l’incontro e la conversazione che molti anni fa, ancora ragazzo, ebbi occasione di avere con due testimoni di quel 1° maggio del 1947:

Il vecchio oste è stanco, nei gesti delle mani ha come qualcosa di lontano, quasi l’eco di altri gesti. Di solito parla poco ma non è scostante, è una cortesia dalle frasi essenziali gli basta un cenno, ne lancia uno al ragazzo proprio ora, indicandogli il bicchiere, per ricordargli di andarci piano lui che è forestiero, con quel vino che ha stordito anche Polifemo. La moglie torna con tre piatti di fumante couscous all’aglio verde e frutti di mare, profumi pungenti che s’insinuano stuzzicanti tra gli altri già presenti nella sala. Il ragazzo inizia a gustarli quei sapori carichi di un’armonia che sta iniziando a conoscere. Un occhio verso il televisore, incuriosito dalla ricostruzione dei lontani eventi, e l’altro verso i due anziani osti che ora gli ricordano i suoi genitori. Sembrano anche più anziani, li immagina quasi cinquantenni al tempo dei fatti. 
“Dove si trova Portella?” chiede.
“A un centinaio di chilometri, verso Palermo.”
“U me cori doppu tantanni è a Purtedda, enta petri e ‘nto sangu 
di cumpagni ammazzati” gli fa il vecchio.
“Cosa?”

“Il mio cuore dopo tanti anni è a Portella, nelle pietre e nel sangue dei compagni ammazzati; è scritto con la vernice rossa sul Sasso che da quel giorno fa da lapide”, traduce la moglie che poi aggiunge: “Noi c’eravamo….”,
e il racconto prende il volo, come sempre, quando riesce a partire da “i ricordi di sempre stratificati in un terreno da dissodare ancora, ogni volta che qualcuno si azzarda ancora a raccontare, appena s’accorge che qualche altro sta provando ad ascoltare.”

Quella di Portella è stata definita da molti la madre di tutte le stragi, e anche l’origine del patto stato-mafia. Rileggevo poco fa una recensione al libro La scomparsa di Salvatore Giulianodi Giuseppe Casarrubea e Mario Josè Cereghino, che ripercorre proprio questi aspetti, questi anfratti angusti della nostra storia. Sarà per questo particolare carattere della strage di Portella, che quest’anno al cimitero di Piana degli Albanesi per la deposizione dei fiori nel luogo dove sono sepolte le vittime della strage, sarà presente Rosy Bindi, presidente della commissione parlamentare Antimafia.

Non fu una strage “qualunque” ma una sorta di golpe. Nonostante il lavoro delle mafie e dei poteri di sempre, che sempre si riorganizzano quando i contesti esterni mutano, e che allora avevano trovato varchi a loro utili  già nello sbarco degli Alleati, e poi una copertura nel movimento separatista, in quel mese di aprile del ’47 le prime elezioni politiche regionali le avevano vinte le sinistre unite nel Blocco del Popolo, e nelle campagne i contadini non abbassavano la testa. Anzi, si organizzavano. Poche settimane dopo salterà addirittura il governo di unità antifascista a Roma, siamo nella guerra fredda e le sinistre verranno buttate fuori. Il ministro degli Interni è già Scelba e il ministro dell’Agricoltura, il comunista  Gullo che già nel ’44 aveva emesso quei decreti che consentono ai contadini organizzati in cooperativa di requisire parte dei latifondi, lo hanno già sostituito, nel ’46, con un proprietario terriero sardo, un certo Segni. Lo scontro è duro nelle campagne, e in Sicilia in modo particolare, come lo era già stato cinquanta anni prima al tempo della repressione dei fasci siciliani. Il Sasso dove a Portella i sindacalisti salivano per fare “la predica”, come in quel primo maggio e sul quale è scritta quella frase che ho citato sopra, prende il nome proprio da uno dei leader del movimento dei fasci. Lo scontro è nuovamente duro, con scioperi e occupazioni delle terre, e con molti altri attentati e uccisioni. La lista dei sindacalisti, e non solo, è lunga, la ritroviamo dentro gli elenchi delle vittime di mafia che ai giorni nostri ogni 21 marzo vengono letti nelle manifestazioni di Libera.
Alcuni mesi dopo, il 10 marzo del ’48, viene ucciso a Corleone Placido Rizzotto; il corpo sarà ritrovato solo molti anni dopo. Ascoltavo su you tube un’intervista a un testimone di quel periodo, il quale ricordava Rizzotto dicendo più o meno: “che faceva?, parlava con noi, ci aiutava a capire, ci leggeva il giornale, a chi non sapeva leggere”.
Ritorna anche qui questo leggere il giornale insieme, la stessa cosa che ho ritrovato in tanti altre situazioni e che immagino facessero tutti, una cosa che certo doveva apparire davvero intollerabile, perché stimola a vedere le cose da un altro punto di vista. Le mafie, i poteri, lo sfruttamento, le discriminazioni, le politiche inique, le illegalità che vengono sancite dall’alto, in tutte le diverse forme che sono capaci di assumere – leggo ad esempio che nelle iniziative di oggi nella zona, che i sindacati dedicano alla “Carta dei diritti”, ci saranno insieme a tanti altri anche i lavoratori call center Almaviva, i nuovi contadini senza terra – non sono accadimenti della natura ma un prodotto sociale, e quindi è possibile anche modificarli.
Il 1° maggio è anche tutto questo.