Le mutate di cielo

Quando in un libro come L’erba dagli zoccoli si raccolgono storie accadute in regioni d’Italia diverse e lontane tra loro, e in luoghi dell’entroterra delle cosiddette aree interne, speso definiti impropriamente ‘borghi” – sempre più in bilico tra “restanza” e “strategia dell’abbandono” – luoghi che spesso erano già emarginati e disagiati al tempo di quelle storie – parlo qui delle lotte contadine degli anni del dopoguerra, nelle quali oltre al contrasto dei padroni e dei loro caporali spesso armati, e non si limitavano a mostrarle le armi, e oltre alle forze dell’ordine che andavano a sgombrarli con la forza quando occupavano le terre o facevano scioperi a rovescio, alla fine se ci riuscivano, il compito più arduo per quei contadini era proprio quello di addomesticare quelle terre conquistate a fatica – può capitare, appunto, in questo periodo presente di eventi meteo sempre più estremi e più frequenti per una crisi climatica che dopo anni di accumulo inizia a manifestare i propri effetti, capita appunto di vedere questi stessi luoghi toccati direttamente e tutti insieme da questi eventi.

Ieri pomeriggio eravamo presso Fano, a Vita da Pacos una piccola oasi di natura e fauna tra le nostre colline, per un reading sulle lotte contadine, e introducendo la storia di Maria Margotti accaduta nel 1949 nei pressi di Argenta, ricordavo che in questo momento tra Conselice e Argenta s’è formata una palude, un piccolo lago che non si svuota da solo, ancora lì a due settimane dall’alluvione in Emilia Romagna. Campagne svuotate a suo tempo dall’acqua anche grazie alla fatica non umana degli scariolanti, ancora oggi una rete di canali in apparenza addomesticata ma basta uno sguardo, quando ci vai in mezzo a quei campi, per capire che devi sempre tenerla sotto controllo. Anche l’episodio tragico di Maria avvenne mentre le donne erano scese dalla bicicletta e si affrettavano in fila su una passerella per attraversare un canale nei pressi del Reno.

Non sapevo invece, quando sono passato ad un altro racconto presente nel libro e nel reading che riguarda le nostre Marche terra di mezzadri, e citavo Samuele Panichi di Pianello di Cagli, che nello stesso istante proprio dalle parti di Cagli stava venendo giù una bomba d’acqua. Lì da noi, a poche decine di km, avevamo solo notato il cielo scurirsi un poco, ma era quasi un sollievo, una pausa al caldo di poco prima. Nel libro le storie dei mezzadri sono messe in scena da tre anziani che le narrano ad un ragazzo mentre sono in treno e partono dalla stazione di Fabriano, e non sapevo che anche lì nello stesso istante stava venendo giù una bomba d’acqua, che causava problemi alla stessa ferrovia, fermando i treni. Bombe d’acqua qua e là, in un normale week end di fine settimana.

Quando poi sono rientrato a casa ho visto le immagini dell’alluvione a Matera, fiumi d’acqua incanalati nelle strade, e ieri sera al reading avevamo raccontato anche dei contadini di Montescaglioso e delle poesie di Rocco Scotellaro e dell’omaggio a lui e ai contadini lucani realizzato da Carlo Levi con quel magnifico quadro esposto a Palazzo Lanfranchi, nel cuore di Matera.

Capita. È un mondo popolato da infinite storie, le nostre, quello ora inondato da acqua e fango. Se un libro parla dell’Italia tutta, e queste cose accadono purtroppo nell’Italia presente, non sono eventi lontani questi effetti della crisi climatica, o scene da vedere in televisione seduti in salotto quando toccano ad altri, e invece ci inseguono ovunque e ci toccano, accadono a noi.

A reading concluso i ragazzi che ci hanno seguiti con pazienza ma anche interesse fino alla fine, ci hanno pure chiesto di raccontare loro qualcosa anche dello sciopero a rovescio del Cormor nella bassa friulana – non riusciamo mai a inserire nella scaletta del reading tutte le storie del libro – e così ne abbiamo parlato: in questo caso lo sciopero a rovescio era proprio per prosciugare una zona paludosa, costruendo da soli un canale, accadeva nel maggio del 1950; nella prima parte del racconto, nel libro, ricostruisco un po’ la storia di quel fiume e cito un’alluvione storica, nella seconda metà di settembre del 1920, negli stessi giorni in cui in Italia giunge alla fine la grande occupazione delle fabbriche, si smobilita, da quel momento in poi sarà una rititata sociale continua, per oltre un ventennio: “L’inondazione del Cormor avviene in quei giorni ed è la più terribile che si ricordi; inizia in prossimità di San Daniele, sulla collina morenica a nord delle risorgive, e si porta via tutto ciò che trova. Nei punti di strettoia l’acqua sale addirittura a cinque metri di altezza. Via i campi, via le colture strappate ai sassi, via le fatiche seminate lì giorno per giorno per fertilizzare quella terra di sassi. Via le case e le strade, e via anche tante persone. Quelle che non muoiono subito, emigreranno. È difficile resistere alla Storia e alla Natura quando si alleano.” Già. Storia e Natura. Sono sempre accadute queste cose, lo sappiamo, e a maggior ragione dovremmo temerle oggi, che abbiamo contribuito ad aumentarne l’intensità e la frequenza.

Storia e Natura. Ne parlo anche in un altra parte del libro, nel racconto dedicato a Vittorio Veronesi, accadde appena una settimana prima dello sciopero del Cormor, però a Porto Mantovano. Vittorio e il suo amico Nerino stanno andando verso il luogo dove li attendono con i fucili per un agguato, ma in quel momento è tutto ancora tranquillo, è notte fonda e chiacchierano di ciò che sta accadendo in Italia, e della condizione sempre precaria dei contadini, ai quali basta un imprevisto di troppo per ritrovarsi senza nulla: “Sempre gli stessi contadini ma in ogni luogo con i propri problemi, le piccole conquiste vere o presunte da difendere, e sempre pronti a girovagare sparsi, anche in bicicletta, biciclettati li chiamavano, in cerca d’altro quando non c’è altro da fare, basta un fiume che straripa o una stagione più avara a rovinarti e spingerti verso un padrone che ha voglia di usarti, retrocesso ad avventizio. La Natura, ma chi l’ha detto che è neutra, è come la Storia, non colpisce mai tutti allo stesso modo.” Sfollati di ieri e di oggi.

“Le mutate di cielo” le ho trovate invece nei libri dell’antropologo Ernesto de Martino (in particolare, le ho trovate nel libro La terra de rimorso che guarda caso a gennaio di quest’anno è stato di nuovo ripubblicato, per la sua attualità ancora oggi); stavo tornando indietro dall’Arneo, dopo la mia prima visita ai quei luoghi di taranta, di roghi di biciclette e di lotte contadine: “Alle mie spalle, appena oltre l’Arneo, il cielo è diventato nero, si sta avvicinando un temporale, avverto quasi l’elettricità dell’aria mentre i colori del mare e delle case continuano a luccicare decisi sotto la luce radente del sole, ancora non coperto. Il banco di nubi basso sull’Arneo mi fa venire in mente le “mutate di cielo” citate da Ernesto De Martino, il ricorrente miraggio per cui gli abitanti della costa vedevano a specchio nelle nuvole l’avvicinarsi della flotta turca. Il pericolo in arrivo anticipato dal suo riflesso nel cielo, salvare se stessi confidando nel miraggio.” Il racconto dell’Arneo è l’ultimo del libro, e proprio con il temporale in arrivo si chiude così il libro: “Cadono le prime gocce di pioggia”, un po’ come in quel film di Milcho Manchesvki, Prima della pioggia.

Il mio libro di racconti di lotte contadine l’avevo impostato volutamente in questo modo, avevo scelto apposta storie diverse accadute in luoghi d’Italia lontani e diversi ma tutte nello stesso periodo, per ricercarne meglio gli intrecci che potevano legarle, non erano singole rivolte di paese isolate tra loro, e ne avevo trovati davvero tanti di legami, stupendomi io stesso, scorgendo la loro unitarietà in una visione d’insieme che li rendeva un unico racconto. E ne avevo scelto solo alcune di queste storie, ma erano davvero molte e molte di più. Anche questi episodi odierni – e anche qui sono molti di più di quelli citati in queste poche righe – di una crisi climatica oramai avviata dovremmo poterli vedere, se abbiamo voglia di guardare davvero, non come accidenti casuali che colpiscono isolatamente qua e là ma ci riuniscono tutti. E ricordandoci che la Natura non è neutra e non colpisce mai tutti allo stesso modo.

“Le parole le ho sempre associate”

Il primo capitolo di questo libro di racconti sulle lotte contadine, è autobiografico, parlo di me e della mia famiglia; in questa introduzione spiego il perché del mio interesse per le lotte contadine e come il libro è nato, da quali esigenze. Nel 2022 è stato scelto da Casa Cervi in lettura per il “Maggio dei Libri”.

18 dicembre 1949 (poesia di Vincenza Castria)

Silvano Staffolani e Lorenzo Cantori (il Duo Acefalo), mettono in musica la poesia di Vincenza Castria per suo marito Giuseppe Novello, nel giorno che avrebbe dovuto essere quello del trentaduesimo compleanno, il 18 dicembre; Giuseppe purtroppo era deceduto proprio il giorno prima, dopo tre giorni di agonia per le ferite mortali riportate la notte del 14 dicembre; Vincenza aveva ventisette anni.

Su che cosa accadde quella notte, ecco di seguito un estratto da “Ti porterò gli odori della terra”, un verso di Rocco Scotellaro per dare il titolo al racconto dedicato a Giuseppe Novello, con questo brano in particolare dedicato a Vincenza Castria:

«L’intero paese è svegliato dai rumori e dai pianti disperati dei bambini, nelle case non c’è la luce, cercano a tentoni delle candele o qualcosa per vedere, si vestono alla meglio o escono mezzi svestiti e si riversano per il paese prima ancora di poter capire cosa stia accadendo. Quella mattina a Monte c’è una nebbia fittissima che impedisce di vedere anche a pochi metri e l’umidità rende scivoloso l’acciottolato delle strade. La gente d’istinto s’incolonna verso la Camera del Lavoro e Corso della Repubblica.

Giuseppe e Vincenza – sì anche Vincenza ha voluto caparbiamente venire: io che scrivo non riesco a non pensare, mentre rileggo gli appunti presi per ricostruire quei momenti, cosa sarebbe stata dopo la vita per Vincenza se quella mattina avesse desistito, restando a casa, lontana da Giuseppe in quel tragico momento – insieme, prendono per via Simon Giuda e attraversano l’Arco d’ajamm, ma la gente è così tanta che non si riesce a raggiungere la caserma dei carabinieri e capire che accade. La tensione è tanta e l’aria è forte, dovrebbero già aver lanciato anche dei lacrimogeni: “Poi sentimmo il rumore di una motocicletta e mano a mano lo sentivamo più forte perché era diretta proprio dalla caserma. Davanti a quel muro umano, la moto non poté proseguire, non poteva crearsi un varco. Allora i due militi, stando sulla moto, diedero ordini per poter passare, nessuno si mosse e questo li fermò e mandò in bestia. Vista l’impossibilità di passare, cercarono di tornare indietro, al che – non so se sbagliarono manovra, oppure se la strada fosse viscida e umida per la nebbia – la moto slittò e i due caddero a terra. Questo stravolse la loro lucidità, si alzarono imbracciando uno il mitra, l’altro la pistola e… cominciarono a sparare…. Giuseppe mi parve che fosse per terra appoggiato al muro…”.

È Vincenza che racconta così l’inizio dell’agonia, il dolore, lo strappo della morte, e anche la vita, sì anche la vita che si fa largo comunque e a strattoni e non è facile starle dietro. Qualche giorno dopo la morte di Giuseppe riceve nella sua umile casa la visita di Giorgio Amendola e lì per lì se ne meraviglia, nasce da quell’incontro non solo un aiuto ma l’invito a coinvolgersi nella vita pubblica e sociale. Non desistete mai, aveva incitato Giuseppe mentre lo portavano via dalla piazza; potrebbe sembrare banale retorica e invece è la vita che comunque si ostina a cercare sempre una strada.»

Il corsivo con le parole di Vincenza è una citazione dal libro “Rossa terra mia, le lotte per il riscatto della Lucania nel nome di Giuseppe Novello”, di Vinceza Castria e Ciro Candido.

Rocco Scotellaro dedicò a Vincenza Castria la poesia MONTESCAGLIOSO; alcuni versi di questa poesia li abbiamo citati nella canzone SCAGLIOSA, dedicata a queste storie.

La poesia è un giardino con molto vento

“La poesia è un giardino con molto vento. Il poeta è una mosca che tenta di attraversarlo”; non è mio questo pensiero poetico ma di Lorenzo P. di 8 anni, l’ho trovato per caso qualche minuto fa su fb. Mi sembra particolarmente intonato con quanto abbiamo fatto ieri sera, immergendoci nel vento pe rendere omaggio ai Martiri del XX giugno nel luogo dove un monumento li ricorda. C’era molto vento, rischio di pioggia e bufera, siamo andati ugualmente, e come scrive Lorenzo P. abbiamo cercato di essere come quella mosca, che la sua leggerezza la usa per attraversarlo quel vento impetuoso che ci arriva addosso a volte minaccioso, altre volte festoso, comunque sempre impegnativo.

Sullo sfondo, dietro di noi, i campi erano già pronti per la semina, di quel grano che diventerà biondo con l’arrivo della prossima estate, come lo era nei giorni della storia di questi sette ragazzi, il 20 giugno 1944.

“Il giorno più lungo” è il titolo del racconto che ieri pomeriggio ho letto in loro onore; il racconto ha ricevuto un importante riconoscimento per chi ha a cuore le memorie, è stato selezionato secondo al 6° Concorso Letterario Nazionale di Narrativa e Poesia “Inchiostro e Memoria” organizzato dall’Anpi di Rescaldina; alla lettura del racconto segue nel video la canzone “Sette lucciole perse nel grano”, oramai inserita stabilmente nei nostri reading e dedicata proprio a questi sette ragazzi. Una canzone che vuole d’essere un inno alla leggerezza, “perché i ricordi hanno bisogno di leggerezza per continuare a volare”, come scrivo nel racconto, e che ritrovo come auspicio anche nel pensiero espresso da Lorenzo P.

Tra lume e scuro

Vi Cunto e canto… come al tempo dei cantastorie, un reading concerto “tra lume e scuro” (come dicevano gli anziani, quando ero un bambino, per indicare il crepuscolo, ma ancora ci si attarda a fare le cose, rinviando fino all’ultimo di accendere la luce) alla fattoria “Orto alle Sette” di Monte Roberto (Ancona), organizzato da “OrtoLibreria” di Jesi. Con Tullio Bugari, Silvano Staffolani e Lorenzo Cantori.
In questo reading sono presenti storie e canzoni tratte un po’ da tutti i reading e spettacoli degli ultimi quattro anni, anche quelli mai presentati dal vivo perché azzerati dal confinamento Covid, come lo spettacolo Percorrere la Memoria, prodotto insieme ad Arci Voce aps e presentato in una sola occasione al Teatro La Fortuna di Monte San Vito (An), o la lunga galoppata con le filastrocche e le favole di Gianni Rodari, Vi Cunto le Favole, le Filastrocche Vi Canto) trasmessa solo on line durante il confinamento, oppure il reading concerto Sui suoi passi preparato per il 25 aprile e purtropp utilizzato solo on line; in questo reading avevamo inserito anche la canzone La Valigia, dedicata al bracciante Vittorio Veronesi, che avremmo voluto portare a Porto Mantovano il 17 maggio, giorno del 70° anniversario della sua uccisione, ma anche questo evento è stato purtroppo annullato, e sostituito comunque da un video.

Queset sono le canzoni fatte ascoltare, nell’ordine con cui sono state presentate, accompagnate ciascuna dal proprio racconto::
1) Su alzati Maria, dedicata a Maria Margotti  (dal minuto 1)
2) Canto alla mietitora, canto tradizionale marchigiano (dal minuto 8)
3) San Martino, dedicato ai mezzadri del Centro Italia (da 10′ e 30”)
4) Scagliosa, dedicata a Giuseppe Novello e ai contadini senza terra (minuto 18)
5) Marco Cavallo, dedicata a Franco Basaglia (da 25′ e 30”)
6) Treni alla stazione, dedicata agli operai della Sima di Jesi (da 31′ e 30”)
7) Le scarpe, dedicata a Igino Gobbi (dal minuto 40)
8) La Valigia, dedicata a Vittorio Veronesi (da 45′ e 40”)
9) Il profumo del pane, dedicata a Aurelio Ricciardelli (da 52′ e 30”)
10) I sette fratelli, dedicata a Gianni Rodari e Alcide Cervi (dal minuto 60)
11) Sara la bella, dedicata alla leggenda di Sara e Piero (da 1h e 4 minuti)
12) Nel mezzo del cammin di nostra vita, dedicata al nostro sommo poeta sulle arie del saltarello (da 1h 12′ e 20”)

Nicola and Bart, 23 agosto 1927

Avendo formato, nell’adolescenza, la mia curiosità per la politica e il sociale nell’ambito del pensiero anarchico, ho sempre sentito particolarmente vicini Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, fin da quando leggevo la loro storia nei libri e riviste anarchiche, stampate anche in clandestinità durante il Fascismo e da piccoli editori autonomi, e custoditi nella vecchia biblioteca, poi purtroppo dispersa, del circolo anarchico della mia città.

Quando andai a vedere il film di Giuliano Montaldo “Sacco e Vanzetti” uscito nel 1971, con quei due grandi attori che erano Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla (anche Rosanna Fratello, che interpretava Rosa Sacco ebbe un premio) e le musiche di Ennio Morricone, fu una vera emozione, così come con le due canzoni interpretate da Joan Baez.

Negli anni ho “incrociato” più volte la loro storia mentre ero alle prese con altre, e alcune le ho citate nel mio L’erba dagli zoccoli dedicato alle lotte contadine nel dopoguerra: ad esempio, quando nel racconto dedicato agli scioperi a rovescio per governare le acque del Cormor in Friuli, nel 1950, in una sorta di flash back storico cito un’inondazione del 1920, negli stessi giorni di un’altra “piena sociale”, quella delle occupazioni delle fabbriche in Italia, e poi per un’associazione d’idee internazionalista, proseguo scrivendo:

«È stato così più volte. La più imponente nel settembre del 1920. Quale remota energia sociale l’aveva caricata? A New York pochi giorni prima, il 16, è esplosa una bomba nel centro finanziario del nuovo capitalismo in ascesa, Wall Street, uccidendo trentatre persone e ferendone alcune centinaia. Si dirà, diranno, che sia stato un anarchico italiano, Mario Buda, secondo le cronache addirittura l’inventore dell’autobomba. Cinque giorni prima, l’11 settembre, erano stati incriminati Sacco e Vanzetti, dando inizio alla caccia all’anarchico. Pare che qualcuno del gruppo sia riuscito a scappare appena in tempo, clandestino su una nave che rientrava in Italia. Si dirà che Buda cinque giorni dopo la loro incriminazione abbia percorso Wall Street con un carretto trainato da un cavallo per depositare la sua bomba a tempo tra la Morgan & Stanley e la Borsa Valori. Lui negherà sempre, fino alla morte, di essere il responsabile.»

Sacco e Vanzetti erano già in stato di arresto dal 4 maggio, l’11 settembre sono formalmente incriminati per la rapina di South Braintree e l’assassinio dei due portavalori. Pare che a maggio, durante il loro fermo, «qualcuno del gruppo sia riuscito a scappare appena in tempo, clandestino su una nave che rientrava in Italia». Alludo nel mio racconto a Samuele Panichi, di Pianello di Cagli, anche lui emigrante e già sindacalista dei minatori di Monongah, nella Virginia, e rientrato in Italia in quei giorni del 1920. La leggenda sostiene che fosse lui l’anarchico sfuggito alla trappola della polizia, ma non ci sono veri riscontri documentali.

Ricordo Panichi sempre nel mio libro L’erba dagli zoccoli, nel racconto “Il Curandero” dedicato ai mezzadri delle Marche, lui fu anche partigiano sull’Appennino umbro-marchigiano, tra Petrano, Nerone, Serra di Burano e Acquapartita, con la “banda Panichi”, inquadrata nelle Brigate Garibaldi (la stessa banda dove visse la sua iniziazione la giovane Walkiria Terradura). Questa leggenda di Panichi con Sacco e Vanzetti viene riferita nel film “Il sogno del partigiano Sam” diretto da Gianfranco Boiani con la collaborazione di Giorgio Bianconi, e poi da Irene Ottaviani (che tramite Bianconi mi fece avere un’autobiografia scritta da suo nonno Panichi) nel libro “Un uomo libero” (scritto insieme a Marco Milli), pare che ci fosse stato anche qualche scambio epistolare tra Panichi e Vanzetti, e inoltre la presenza forse di parenti di Vanzetti al funerale di Panichi nel 1980. Nella stessa occasione un giornale triestino uscì con un titolo che alludeva all’anarchico che era stato insieme a Sacco e Vanzetti.

Non è certo, dunque, il tipo di legame, ma un legame comunque c’era: fili della Storia che s’intrecciano e poi ci sfuggono.

Quando Nick e Bart furono arrestati il 4 maggio 1920 c’era in tutti gli Stati Uniti un clima di feroce repressione, è il periodo dei Palmers Raid; loro due quella sera erano usciti da una riuniune, gli trovarono nelle tasche oltre ad una pistola che portavano per autoidifesa, anche dei volantini per un comizio che Vanzetti stava organizzando  insieme a Carlo Tresca per il 9 maggio, per protestare e denunciare la morte dell’anarchico Andrea Salsedo, precipitato il 3 maggio da una finestra di un ufficio della polizia al 14° piano ddi un grattacielo di New York. Uno dei numerosi “anarchici volanti”. Nel 1970, Dario Fo in Morte Accidentale di un anarchico (dedicata a Pino Pinelli), finge di parlare di Salsedo per evitare guai giudiziari in quegli anni di caccia alle streghe (e così da Salsedo, Pinelli, l’Antologia di Spoon River, la ballata di Carl Hamblin fatta mettere da Licia sulla lapide di Pino e i Martiri di Chicago, s’innescano un’altra serie di intrecci e collegamenti, che mi ritrovo a citare sempre nel mio libro e nei reading in cui racconto le stesse storie, fino ad arrivare ad un verso di una poesia di Rocco Scotellaro dedicata a Giuseppe Novello, che io e Silvano Staffolani abbiamo inserito anche in una canzone, Scagliosa).

Bartolomeo Vanzetti era nato a Villafalletto, un paese tra Cuneo e Saluzzo, zona di partigiani durante la Resistenza; era nato nel 1888, aveva 39 anni il giorno in cui morì sulla sedia elettrica. Di Vanzetti ho avuto occasione di leggere la sua autobiografia, “Non piangete la mia morte”, scritta in quegli anni di carcere, e carica veramente di sentimento. Un brano del libro l’ho inserito come lettura nello spettacolo “E questo è il fiore”, che ho realizzato due anni fa insieme ad Arci Voce aps e al Canzoniere dell’Anpi (nel video che vedete, la lettura è affidata a Rosella Canari, accompagnata poi da una delle canzoni in scaletta interpretata da Tania Pisani, con il canzoniere dell’Anpi, qui al Teatro Pergolesi di Jesi).

Nicola Sacco invece era più giovane di tre anni, ed era nato a Torremaggiore, in provincia di Foggia. Si compì qui, nel 1949 uno dei tre più importanti eccidi nelle lotte contadine di quei mesi, insieme a quello di Melissa (Crotone) e di Montescaglioso (Matera). Questo è il motivo per cui occupandomi del mio libro mi sono intrecciato ancora una volta nel ricordo di Nicola Sacco. Nelle stesse campagne che ancora oggi conoscono purtroppo lo stesso sfruttamento a danno dei braccianti, oggi in maggioranza stranieri, e le lotte contro lo sfruttamento continuano a rinnovarsi. Mi capita spesso, nei reading in cui racconto le lotte contadine del dopoguerra narrate nel mio libro, di citare questi “intrecci” storici, sia con gli anni ancora precedenti che con gli anni odierni, ricordando ad esempio la bracciante Paola Clemente morta di caporalato nelle campagne di Andria nel 2015, o lo sciopero dei braccianti africani a Nardò del 2011, che contribuì ad avviare quel processo che ha portato alla legge contro il caporalato.

È in questo modo e con questo intreccio di situazioni e di lotte, che mi viene da ricordare oggi l’uccisione di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti il 23 agosto 1927.

 

 

Vittorio Veronesi, 17 maggio 1950 (un delitto rimasto con troppe ombre)

17 maggio 1950, a Bancole (Porto Mantovano) viene ucciso VITTORIO VERONESI, partigiano e bracciante. Oggi sono settanta anni esatti. Purtroppo non è stato possibile organizzare nemmeno una cerimonia simbolica presso la lapide che lo ricorda vicino al luogo dove fu ucciso. A metà febbraio, appena in tempo prima che scoppiasse questo delirio della pandemia, sono andato a trovare Gianni, il nipote di Vittorio, per ragionare insieme su come organizzare una commemorazione all’altezza di questa storia. Ci tenevo ad essere utile per questa data importante. Purtroppo non è stato possibile, ha toccato ripiegare su eventi a distanza e così Tele Mantova ha realizzato questo bel filmato, di testimonianza e di ricordo, intitolato “Vittorio Veronesi, un delitto rimasto con troppe ombre”. Le stesse della notte che lo hanno avvolto.

Durante quella chiacchierata a febbraio Gianni mi ha passato un po’ della ricca documentazione che lui ha raccolto negli ultimi due anni per ricostruire nel dettaglio, e nell’intimità della storia dal punto di vista del singolo, mi sento di aggiungere, la storia dello “Zio Vittorio”; tra questi documenti ce n’era uno che ha stimolato me e Silvano Staffolani a comporre una canzone “La valigia”: alcuni mesi dopol’uccisione di Vittorio, suo fratello Adelchi raccolse i vestiti insaguinati che Vittorio indossava quella notte per consegnarli al magistrato che si stava occupando del processo, che si stava svolgendo secondo il vecchio ordinamento di allora, soltanto in istruttoria, senza dibattimento e quindi intervento di avvocati, utilizzando solo la prima ricostruzione “a caldo” (immaginiamo d’essere lì: l’uccisione avvenne alle 1,45 circa di notte dopo neanche mezz’ora i carabinieri sono lì e alle prime ore del mattino quando arriva il magistrato trova in pratica già tutto pronto).

Con Gianni Veronesi invisita alla lapide di “Zio Vittorio”.

Secondo Adelchi quei vestiti erano la prova di come realmente s’erano svolti i fatti, per ristabilire la verità perché tra indagini e processo la realtà sembrava capovolta, gli aggressori erano diventati Vittorio e i due amici insieme a lui, uno dei quali restò anche gravemente ferito. Ma non vollero nemmeno riceverlo e dovette riportarsi a casa la valigia.

Nelle carte dell’indagine e del processo si fa molta insistenza sul clima di violenza e intimidazione messo in atto dai braccianti, tentando di dimostrare che fosse del tutto normale per questi andare in giro e aggredire agrari, crumiri e avversari, ai quali non restava che difendersi. Da quanto ho personalmente letto e studiato su quel periodo storico, mentre quattro anni fa scrivevo per il mio libro “L’erba dagli zoccoli” il racconto sulla vicenda di Vittorio, sembra che la realtà storica sia proprio un’altra e che in quegli anni sia avvenuto esattamente il contrario. Riporto di seguito un brano tratto dal mio racconto; tra le fonti principali consultate ci sono i dibattiti parlamentari alla Camera e al Senato di quegli anni, tutta documentazione disponibile online (di recente ne ho fornito un esempio che riguarda una settimana di marzo del 1950; non una settimana speciale, ma una normale, uguali a tutte le altre).

«È il 17 di maggio. Più giù, verso Molinella, gruppi di mondine e braccianti oggi portano i fiori a Ponte Stoppino per ricordare Maria Margotti. Il dolore che provano in questo primo anniversario è ancora quello fresco del primo giorno. Nel mantovano si sciopera di nuovo. La canaglia non l’hanno più presa lo scorso anno e ora è di nuovo in movimento. Vittorio e l’amico Nerino sono partiti nel cuore della notte. Pedalano a tratti, in altri per prudenza devono scendere e proseguire cauti, il buio è fitto, non si distinguono nemmeno le ombre. E quelle che incontri potrebbero essere persone vere, armate di fucile per darti la caccia, non ci sono più soltanto i carabinieri.
Gli agrari l’hanno dichiarato nei mesi scorsi, hanno fatto le cose in grande, addirittura convegni, a Milano Brescia Cremona Mantova e altri ancora. L’hanno detto gridando scomposti e scrivendolo pure, vogliono costituire bande armate contro i contadini. Hanno intenzione di difendersi – difendersi, hanno detto, abusando di una parola che non gli appartiene – con tutti i mezzi nessuno escluso, contro le rivendicazioni dei contadini. Hanno nostalgia delle bande fasciste degli anni Venti, sono trascorsi meno di trent’anni e alcune persone sono addirittura le stesse. Vittorio nasceva in quell’anno, e poi è cresciuto in fretta, il tempo può essere anche veloce quando lo guardi girandoti indietro, è il futuro invece che ingombra l’orizzonte, perché devi costruirlo da ora, momento per momento e non ti basta ciò di cui disponi.
Ai convegni degli agrari erano presenti, dicono come invitati, prefetti e capi democristiani. Alcuni padroni, più esagitati di altri, s’erano presentati armati davanti ai teatri ma i braccianti organizzati in gruppi li avevano disarmati, consegnando le pistole alla polizia. Alla fine del convegno li avevano visti sfilare in corteo senza nascondere le fondine vuote, boriosi come se fosse solo momentaneo quel disarmo. In un convegno qualche oratore aveva esagerato con i toni e così pure il prefetto e gli altri notabili erano stati costretti ad andare via, per far vedere che prendevano le distanze. Nei giorni successivi c’erano state aggressioni e sparatorie contro i braccianti, con annessi arresti e processi e anche, ma guarda un po’, assoluzioni per gli sparatori. Era accaduto a Milano e poi a Cremona ma alla fine erano state incriminate le vittime, come un congegno della natura.»

A Vittorio Veronesi ho dedicato nel mio libro il racconto “Prendete quella canaglia” e con lo stesso titolo io e Silvano Staffolani abbiamo composto tre anni fa anche una canzone, che spesso facciamo ascoltare nei nostri reading insieme alla lettura di un brano del libro, che vi ripropongo qui in una registrazione audio, inserita nel recente CD curato da Silvano Staffolani, “Il Nostro 25 aprile”.

Di seguito il “Ricordo di Vittorio Veronesi” su Tele Mantova e le versioni video delle due nostre canzoni, “La valigia” (contiene anche una mia breve lettura dal libro e un pensiero di Gianni Veronesi) e “Prendete quella canaglia”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vi Cunto le favole, le filastrocche vi canto

In viaggio con Gianni Rodari nell’anno del centenario della sua nascita; letture da “Favole al telefono” e canzoni con le sue filastrocche e le poesie, a cura di Arci Voce aps e di Vi Cunto e Canto band  per la programmazione #ResistenzaVirale promossa da Arci nazionale. 

Abbiamo pubblicato su youtube queste letture e canzoni tra metà marzo e metà aprile, nel periodo centrale in cui siamo stati costretti a casa, e le favole al telefono di Rodari – favole che si raccontano da lontano quando non si può fare altrimenti – sono state il nostro modo per continuare a restare insieme:

«Perché abbiamo scelto Gianni Rodari? Innanzitutto perché in questi giorni difficili (carichi di ansia e di incertezza e che oltre al presente stanno cambiando in modo non prevedibile anche il nostro futuro) ci aiuta con la sua leggerezza densa di significato a ritrovare noi stessi.»

 

 

 

In rosso le favole e in blu le filastrocche:

Presentazione: C’era una volta….
Anteprima: Filastrocca di Primavera.
Video 1: Il semaforo blu; Filastrocca corta e matta; Il naso che scappa.
Video 2: La donnina che contava gli starnuti; Giovannino Perdigiono; Il topo dei fumetti.
Video 3: Storia del regno di Mangionia; Filastrocca impertinente; Il palazzo da rompere.
Video 4: Alice cascherina; Sulla Luna; Le scimmie in viaggio.
Video 5: La passeggiata di un distratto; Bella nave; Il giovane gambero.
Video 6: La strada di cioccolato; Il professor Sospeso; Il cacciatore sfortunato.
Video 7: Il palazzo di gelato; Il cielo è di tutti; Giacomo di Cristallo.
Video 8: Il pulcino cosmico; Alla formica; A sbagliare le storie.
Video 9: Il paese senza punta; La Speranza; Il paese con la S davanti.
Video 10: Promosso più due; Il calamaio; Il pozzo di Cascina Piana.
Video 11: La coperta del soldato; Sala d’aspetto; La strada che non portava in nessun posto.
Video 12: La caramella istruttiva; Sospiri; Brif bruf braf; La storia universale.

Tutte le filastrocche inserite nei video (e anche qualcuna di più) Silvano Staffolani le ha raccolte sotto il titolo … sulla luna e sulla terra fate largo ai sognatori; potete ascoltarle e anche scaricarle liberamente QUI.

I sette fratelli. Abbiamo chiuso (momentaneamente) questa cavalcata nelle favole e filastrocche di Gianni Rodari con un omaggio particolare il 14 aprile, anniversario della sua scomparsa quaranta anni fa. In questo video di circa 20 minuti proponiamo insieme: “I sette fratelli”, “La fucilazione”, “Compagni Fratelli Cervi” e “La madre del partigiano”. Vuole essere insieme un omaggio anche ad Alcide “papà” Cervi, al quale Gianni Rodari dedicò il poema breve “Compagni Fratelli Cervi” nel 1955, in occasione del compleanno degli ottanta anni di Alcide.

Ma già il Primo Maggio ci siamo concessi un “colpo di coda” e siamo tornati a Gianni Rodari per riprendere alcune sue poesie e filastrocche sul tema del LAVORO.

 

 

 

10-17 marzo 1950 (dagli atti del Senato)

Per il mio libro L’erba dagli zoccoli, racconti sulle lotte contadine nel dopoguerra, ho scelto alcuni episodi accaduti nello stesso periodo tra il ’49 e il ’50, in diverse regioni d’Italia, per meglio evidenziare, con la “contemporaneità”, che non si trattava di singole vicende isolate bensì di un movimento unico, di “un serio tentativo di riunificare il paese dal basso” come spesso mi capita di commentare durante i reading di presentazione.
Non mi fu difficile trovare gli episodi da raccontare, al contrario fu difficile sceglierne solo alcuni perché ne trovai  veramente tanti, così escogitai una forma narrativa – in ogni racconto c’è sempre qualcuno che racconta, una nonna ai nipoti, degli anziani a un ragazzo e così via, e come accade sempre quando si racconta si divaga e si inseriscono altre storie – che mi permetteva sì di focalizzare alcuni episodi ma al tempo stesso di rendere conto del contesto e di citare anche altre storie.
C’erano poi alcuni periodi ancora più intensi di altri. Uno di questi è la settimana dal 10 al 17 marzo 1950, di cui vi propongo la ricostruzione del Senatore Menotti nella seduta del Senato del 31 maggio 1950, quando prende la parola per criticare la politica del Ministro degli Interni Scelba (il 18 marzo entrarono in vigore nuove misure straordinarie, una specie di odierni decreti sicurezza), e più in particolare Menotti interviene (lo aveva già fatto poche ore dopo il fatto) sull’ennesima uccisione di un bracciante, il sindacalista e partigiano Vittorio Veronesi il 17 maggio 1950 a Bancole di Porto Mantovano. A Veronesi dedico nel mio libro il racconto “Prendete quella canaglia”.
Tra gli altri racconti del libro c’è anche una storia di quella settimana di marzo, ed è quella dell’occupazione delle terre a Bisacquino il 10 marzo, quando il segretario della Camera del lavoro di Corleone era Pio La Torre, andato a sostituire Placido Rizzotto, ucciso esattamente due anni prima il 10 marzo 1948. Poi nel mio libro c’è anche un altra storia di quel mese, lo sciopero a rovescio di Lentella, appena alcuni giorni dopo il 21 marzo, e anche in quel racconto c’è un personaggio – “il narratore”, che è una donna ed è ispirata in modo diretto ad un persona vera – la quale mentre aspetta l’arrivo della corriera in paese, legge da alcune copie dell’Unità le cronache degli ultimi giorni, le stesse di cui parla il Senatore Menotti (e sono così tante le cose di quei giorni che lo stesso Menotti non ce la fa a ricordarle tutte, mi sono accorto che qualcuna l’ha saltata), e sono storie che descrivono bene il contesto in cui vengono adottate anche le nuove misure repressive il 18 marzo.
(La foto sopra utilizzata è tratta dal sito “Rosso di sera Mantova”; sono i funerali di Vittorio Veronesi, si vedono nella foto: Giovanni Pesce, Silvano Montanari, Arturo Colombi, Clarenzo Menotti, Nella Morellino)

Dagli Atti del Senato del 31 maggio uno stralcio dell’intervento del Senatore Menotti:
«A dimostrare che cosa faccia in politica interna questo Governo voglio prendere alcuni esempi che riguardano un più breve periodo, non 4 mesi o 5, ma una settimana, fatti ordinari eli tutti i giorni. È la settimana che va dal 10 al 17 marzo.
II 10 marzo oltre 300 carabinieri aggrediscono a Bisacquino, in Sicilia, un gruppo di contadini che ritornavano da un feuelo occupato: alcuni feriti gravi e 40 lavoratori arrestati.
L’11 marzo a Petralia (Palermo) i carabinieri attaccano un gruppo eli contadini che avevano occu-pato terre incolte: 18 contadini feriti, un moribondo, 33 arrestati. Nella provincia eli Avellino violenze poliziesche contro i contadini, 24 dei quali vengono arrestati.
Ad Ortanova (Foggia) 30 lavoratori sono arrestati perchè protestavano contro la parzialità del collocatore eli Stato.
A San Pietro (Casale) e a Galliera (Bologna), scio-pero di protesta contro tentativi fascisti eli or-ganizzare il crumiraggio: 19 lavoratori arrestati.
Il 12 marzo, a Gallipoli, i disoccupati iniziano dei lavori campestri: 5 arresti;
nell’alta Irpinia (Avellino) i contadini arrestati salgono a 70;
il 16 marzo a Treviso, Vignanello e Bari forti reazioni popolari alle aperte manifestazioni fasciste elei Movimento sociale italiano. La polizia interviene violentemente a spalleggiare i fascisti percuotendo gli antifascisti.
Il 14 marzo a Porto Marghera i lavoratori in agitazione perché da 5 mesi non erano stati pagati, vengono caricati e mitragliati dalla polizia. Bilancio: 7 operai feriti, 2 in pericolo di vita.
Nella provincia di Nuoro contadini e pastori scendono in lotta: 295 vengono arrestati.
Il 15 marzo a Torre dei Passeri (Pescara), i disoccupati iniziano lavori di costruzione e di miglioramento delle strade. Vengono aggrediti dalla «Celere» con bombe lacrimogene e manganelli ; vengono arrestati 131 lavoratori e parecchi sono i feriti.
A Palmi (Reggio Calabria), la polizia aggredisce un gruppo di braccianti. Alcuni sono feriti, altri arrestati.
Il 16 marzo in provincia di Cagliari e in altre zone della Sardegna, i contadini senzaterra, disoccupati quasi l’intero anno, lavorano le terre incolte, ma la polizia ca- rica violentemente i lavoratori e ne arresta 300.
In Calabria si allarga l’agitazione dei contadini per le terre incolte. La polizia opera numerosi arresti di lavoratori.
Il 17 marzo a Nicastro (Catanzaro) 200 carabinieri aggrediscono 500 contadini che con le loro mogli erano andati a lavorare sui campi. Ne vengono feriti 9 dopo essere stati caricati alla baionetta. Numerosi gli arrestati fra i quali il segretario della Federterra provinciale.

Sono oltre 1000 arresti operati in 7 giorni. È un primato senza precedenti, senza contare i feriti, più o meno gravi, ed i contusi. Un ben triste primato, signori! Si può solo dire che il Ministro Scelba lavora sodo in questo campo.

Qual è il carattere dei movimenti repressi? Sono braccianti e contadini poveri che vogliono lavorare le terre incolte, sono operai che difendono il loro lavoro, come a Porto Marghera, sono antifascisti che lottano contri i rigurgiti fascisti e contro i neo-fascisti. In tutti questi casi il Governo usa la violenza contro i lavoratori, contadini ed operai.
Cosa farebbero di più, cosa farebbero di diverso di quello che fa l’onorevole Scelba se per esempio al Ministero dell’Interno fossero Rodinò o Costa? Farebbero lo stesso, con molta probabilità. La politica del Governo è dunque quella dei grossi agrari e dei grandi industriali. È una politica che sostiene il privilegio e la conservazione sociale, ed i fatti citati lo dimostrano. E una politica che incoraggia i rigurgiti fascisti ed il movimento neo-fascista. Anche quando il Governo dice di voler colpire i neofascisti, di fatto, come nelle sue recenti ordinanze del 18 marzo, ha di mira le sinistre.
Lo spirito dell’onorevole Scelba è del resto chiaramente rivelato dagli emendamenti, che non abbiamo dimenticato e che sarebbe un torto dimenticare, alla legge di pubblica sicurezza presentati alla Camera e poi sospesi o fatti rientrare. Essi sono rivelatori. Vi citerò qualche passaggio. «Il Prefetto può richiedere ai dirigenti e ai rappresentanti delle associazioni od enti che svolgono in tutto o in parte la propria attività dentro il territorio della Provincia, la comunicazione di copia dell’atto costitutivo e dello Statuto, nonché notizie sulla loro organizzazione ed attività».

Evidentemente un articolo di legge così formulato, con le conseguenze cui porterebbe, rivela una politica di tipo fascista.

Ricordando Placido Rizzotto (10 marzo 1948)

“Il vento del Nord” è il titolo di una nostra canzone dedicata a Placido Rizzotto, perché così fu chiamato quando rientrò in Sicilia dopo la Resistenza (era stato partigiano in Carnia con le Brigate Matteotti) ma in Sicilia ben presto divenne anche il “vento del Sud”, segretario dela Camera del Lavoro di Corleone, a organizzare le lotte dei braccianti. Il 10 marzo 1948 fu ucciso; il capitano dei Carabinieri si chiamava Carlo Alberto dalla Chiesa, e individuò subito il gruppo dei mafiosi che l’avevano ucciso, ma mancava il corpo di Rizzotto, che fu ritrovato soltanto molti anni dopo. A prendere il posto di Rizzotto alla Camera del Lavoro fu mandato un giovane palermitano di 23 anni che si chiamava Pio La Torre, che lo sostituisce degnamente ed esattamente due anni dopo, il 10 marzo del 1950, guida i braccianti a occupare i latifondi dei mafiosi a Bisacquino, vicino Corleone. Pio la Torre quel giorno fu arrestato e restò chiuso all’Ucciardone per 18 mesi.

Quando presentiamo questa canzone nei nostri reading dedicati alle lotte contadine, dobbiamo spiegare tutto questo, perché “Vento del Nord” è un titolo “strano” che si porta dentro purtroppo negli ultimi anni “assonanze politiche” che non c’entrano nulla con la storia di Rizzotto.

In questi ultimi giorni forse è ancora peggio, perché pare che ora dal Nord scendano insieme virus e panico, in combinazioni variabili tra loro e niente affatto chiare (dove la prudenza “solidale” di mantenere una distanza momentanea per non esporre altri prima ancora di se stessi al contagio, rischia d’imprimerci dentro automaticamente una paura permanente del tutti contro tutti), ma nulla è chiaro purtroppo in questo momento (9 marzo 2020), e si sommano sopra anche altre cattive notizie, sia di tipo economico (crolli in borsa paurosi questa mattina, aggravati anche dagli effetti proprio oggi di mancati accordi internazionali sui prezzi del petrolio, come nella crisi energetica del 1973), sia di tipo “sociale”, come le terribili notizie che riguardano i profughi in fuga ai confini greco turchi, respinti e attaccati da tutti. E altre cose ancora, come le rivolte in corso in molte carceri italiane.

“Non si può ingabbiare il vento” dice in apertura la canzone e il vento naturalmente è quello solidale di Placido Rizzotto, e poi la canzone prosegue, specificando “Quando le parole sono un fiume” e soprattutto “Quando la gente è un fiume, dilaga sulle trazzere e i latifondi”. La canzone rende omaggio a tutto questo e aggiungerei anche a qualcosa di più con questa metafora del vento che non si può ingabbiare, e che rappresenta la vicinanza tra le persone al di là dei confini e delle distanze. Questa mescolanza e questo scambio tra le persone sono la nostra forza più grande, il nostro patrimonio.

Per raccontare questo ‘qualcosa in più’ durante i nostri reading inizio di solito con il ricordare che a Staffolo, un paese della nostra regione, le Marche, c’è una lapide dedicata ad alcuni partigiani fucilati durante una rappresaglia nel giugno del 1944, e nella lapide si legge oltre al loro nome anche il loro paese di provenienza, e uno di questi giovani veniva proprio da Bisacquino, e così racconto chi era questo ragazzo e aggiungo che se non fosse stato fucilato magari qualche anno dopo avrebbe potuto incontrare Rizzotto, magari non per occupare le terre insieme ma questo per il semplice motivo che quel ragazzo era un carabiniere, e anzi che proprio per questo magari avrebbe potuto conoscere e lavorare con il giovane capitano dalla Chiesa, proprio per indagare sulla morte di Rizzotto. E così via, tante storie che s’intrecciano e legano in un solo filo, il filo dei dettagli che unisce la Storia: la Carnia, la Resistenza, le lotte dei contadini, la Sicilia, Pio La Torre e le lotte contro la mafia e la sua amicizia fin da quei lontani giorni a Corleone con dalla Chiesa e poi le sue lotte contro i missili nucleari in Sicilia all’inizio degli anni Ottanta, pochi giorni prima della sua uccisione. Tutto questo partendo da una lapide esposta a Staffolo, che ci ricorda la mescolanza di quei giorni – venivano tutti da altri paesi quei 5 giovani fucilati – e bastava già spostarsi di qualche chilometro ancora verso il Monte San Vicino per trovare uno dei battaglioni partigiani più internazionali di tutto l’appennino (c’erano anche partigiani somali ed etiopi, ne parla in un recente libro lo storico Matteo Petracci). E questo è solo un esempio, perché era così ovunque e da questo nasceva la loro forza.

Domani è il 10 marzo, anniversario della morte di Placido Rizzotto, ricordiamo lui e tutti questi significati che ritroviamo seguendo la sua storia, fino ad arrivare a noi in queste giornate difficili, in mezzo alle quali però non dobbiamo perderci né disperderci, dando il giusto siginificato alle cose: “non si può ingabbiare il vento quando la gente è un fiume”.